Roma, 26 gen – In Europa non tutta la sinistra al governo spinge per le porte aperte. Prova ne sia il pugno duro sugli immigrati adottato ormai da anni dalla Danimarca. Una politica che Copenaghen sta oliando da anni, con paziente metodologia scandinava. Ripercorriamo allora la breve storia di un cambio di linea storico, a cui l’Unione europea guarda con attenzione ma di cui poco si parla in Italia.
Danimarca, come è nato il “piano Ruanda” per gli immigrati
A varare la prima stretta sull’immigrazione fu nel 2018 l’allora premier danese Lars Løkke Rasmussen, centrista del partito dei Moderati, con un piano che prevedeva la creazione di un campo per immigrati ai quali era stata respinta la richiesta di asilo nel Paese scandinavo. Rasmussen fece presente che la struttura sarebbe stata allestita al di fuori dei confini danesi, in un “luogo non particolarmente attrattivo”, precisando: “Farà una grande differenza il fatto che il campo non sorgerà nei Paesi preferiti dai richiedenti asilo, ma altrove”. Quindi non in una nazione europea. L’idea di Rasmussen, attualmente ministro degli Esteri, non è mai stata accantonata da Copenaghen.
Nel giugno 2021 il Parlamento danese approvò una legge per l’apertura di centri di accoglienza per richiedenti asilo fuori dal territorio nazionale. Di fatto la Danimarca intendeva “delocalizzare” in Paesi terzi i clandestini. Un provvedimento che rientrava nella politica delle porte chiuse portata avanti dal nuovo primo ministro, la socialdemocratica Mette Frederiksen. Il provvedimento venne approvato dal Parlamento con 70 voti favorevoli e 24 contrari. Nello specifico si prevedeva che tutte le domande di asilo o di altre forme di protezione internazionale, dovessero essere vagliate in centri ubicati fuori dai confini danesi. Non erano ancora stati identificati Paesi terzi disposti a farsi carico di questo fardello, ma sta di fatto che già nel 2021 il governo – di sinistra – della Danimarca, la riteneva l’unica opzione possibile per frenare i flussi migratori. Sempre nel giugno di due anni fa spuntò poi una nazione disposta ad accettare la proposta danese: il Ruanda. Da allora il governo di Copenaghen iniziò a lavorare in tal senso, studiando un accordo bilaterale con il Paese africano fortemente voluto da un premier donna, di sinistra e con le idee piuttosto chiare.
Cambio di strategia: chiedere il sostegno Ue
I negoziati non sono mai decollati davvero, ma il premier Frederiksen ha più volte ripetuto che la creazione di un centro per immigrati in Ruanda resta uno dei suo progetti prioritari. Due giorni fa, il ministro dell’Immigrazione Kaare Dybvad ha dichiarato che il governo di coalizione – entrato in carica a novembre – pur avendo al suo interno opinioni diverse sulla gestione dei rifugiati, si è impegnato nel portare avanti il piano pensato nel 2021. Un parziale freno al progetto è però arrivato ieri, con la decisione dell’esecutivo danese di rinviare per il momento le trattative con il Ruanda.
A ben vedere però è soltanto un’apparente battuta di arresto, perché Copenaghen ha fatto sapere di voler ottenere il sostegno dell’Ue. Siamo insomma di fronte a un’astuta mossa danese, dopo che la Commissione europea ha annunciato di voler incrementare i rimpatri dei migranti che non hanno diritto a rimanere sul territorio degli Stati membri, con una apposita “strategia operativa” presentata due giorni fa dal commissario agli Affari interni, Ylva Johansson, insieme a Mari Juritsch, coordinatrice delle Politiche europee di rimpatrio. D’altronde, stando ai dati Eurostat, nel terzo trimestre 2022 in Europa sono stati registrati meno di 32mila rimpatri effettivi, su quasi 110mila provvedimenti di allontanamento.
Eugenio Palazzini
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