Roma, 20 gen — Uto Ughi «stronca» i Maneskin, e la bolla dei loro detrattori ulula di gioia. Finalmente «uno fuori dal coro» che «ha il coraggio di cantarle e di suonarle» al quartetto capitolino patrono della fluidità di genere e degli sbadigli. Ma in definitiva, cosa ha dichiarato Ughi? «I Maneskin sono un’offesa alla cultura e all’arte. Non ce l’ho particolarmente con loro. Penso che ogni genere abbia diritto di esistere, però quando si fa musica e non quando si urla e basta». Dunque, secondo il violinista 78enne sarebbe un’offesa all’arte e alla cultura il 90% della musica che viene ascoltata oggigiorno, mainstream o underground che sia.
L’inutile stroncatura dei Maneskin firmata Uto Ughi
Con il tentativo di stroncatura dei Maneskin, Ughi è l’esemplificazione del nonno che batte il manico dello scopettone sul soffitto per ammonire i vicini quando fanno troppo chiasso; è la bourgeoisie che si dichiara scandalizzata, 60 anni dopo la nascita del rock, per l’esempio meno ribelle e meno rock di gruppo rock mai esistito sulla faccia della Terra. Anzi probabilmente Ughi è l’unico borghese che i Maneskin sono riusciti a scandalizzare con due linguacce, una foto seduti sulla tazza del cesso e un paio di reggicalze indossate da un corpo maschile. Quindi, esattamente, di che starebbero godendo in questo momento i nostri sodali, in brodo di giuggiole perché il bacchettone di turno ha bucato il pallone ai ragazzini che giocavano in cortile?
Ce ne sarebbero di critiche da muovere
E dire che ne avrebbe potute esprimere di opinioni fuori dal coro. Opinioni che avrebbero lasciato il segno. Avrebbe potuto sottolineare come un gruppo tutto sommato mediocre, una band del liceo iper prodotta e iper pompata è stata presa, portata al successo a tavolino ed eretta a simbolo della trasgressione legalizzata, del conformismo a base di fluidità di genere, della ribellione innocua tutta smorfie e «sissignore» al politicamente corretto. Ughi avrebbe potuto evidenziare come i Maneskin, nella loro insolvenza musicale, in questa stanca riedizione di generi e manierismi che avevano già rotto negli anni Ottanta sono il contenitore perfetto per veicolare qualsiasi messaggio — dal gender al vaccino anti Covid, dall’ecologismo alle crociate pre e post elettorali anti-Meloni — con cui agganciare all’amo milioni di ghiozzi della generazione Z.
I Maneskin potrebbero esistere anche senza musica, anche se cantassero i motivetti di Alvin e The Chipmunks in playback e con le voci pitchate in alto: i giornali continuerebbero, implacabilmente, a parlare delle chiappe di Damiano fasciate nel perizoma brillantinato, di Viktoria che esce le zinne mentre mastica a bocca aperta perché lei è ribelle, delle geremiadi sul mal di vulva di Giorgia Soleri (che manco suona nei Maneskin, è solo lo spin off di Damiano) o di quanti peli ha sotto le ascelle. Tu prova a pensare a una canzone che non sia tra quelle due o tre ossessivamente trasmesse in radio da due anni a questa parte: vuoto totale.
Ci vuole coraggio
Insomma: avrebbe potuto farne di osservazioni, il sor Ughi. Ma questo presuppone il possesso di una consistente dose di coraggio e la forza di affrontare il rogo mediatico e il processo ideologico che deriverebbero da tali dichiarazioni. Invece Uto, stanco persino di guardare i lavori in corso, tuona, ciavatta in mano, contro la musica di questi giovinastri moderni, l’elemento meno incisivo e più innocuo del pacchetto. Peggio di Ughi c’è solo chi ha accolto le sue parole come come una verità rivelata, chi ha messo il proverbiale cappello sopra le sue dichiarazioni e le ha dichiarate «nostre». Quando sarebbe bastato far parlare il buon Libanese, nella scena in cui disquisisce di disco-music con il Dandi: «’Sto cappone m’ha rotto er ca*zo».
Cristina Gauri
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